
Sonia Pahor è stata una grande persona e una grande musicista – come pianista e come insegnante -, e parlarne in breve sembra imporre di trascurare uno dei due aspetti. Eppure, questo doppio rilievo della personalità in questo caso non mi sembra costituisca un problema di imbarazzo nella scelta degli argomenti, perché in Sonja Pahor c’era una vera analogia di fondo, una vera convergenza, nell’essenza e direi nel metodo, tra la persona e l’artista. Al punto che parlare dell’artista illumina un faro sulla persona. E viceversa.Per dire cosa mi ha sempre colpito di più e mi sembra più tipico nella musicista Sonja Pahor, devo ricorrere a una metafora apparentemente paradossale: Sonja Pahor aveva un orecchio architettonico. Paradossale, dico, perché quando si parla di “orecchio” – sia esso un orecchio assoluto o un orecchio relativo – si intende qualcosa di immediato, si descrive una risposta a uno stimolo. Invece, quando usiamo nella musica la metafora dell’architettura ci spostiamo nei territori della riflessione sulla musica, e della sua comprensione attraverso procedimenti analitici che – per definizione – richiedono del tempo: più o meno tempo, certamente, ma di sicuro sono procedimenti meno immediati rispetto al riconoscere a orecchio l’altezza di una nota, di un accordo o anche di una sequenza di note. Ebbene, chiunque ha avuto il privilegio di farsi ascoltare da Sonja Pahor e di chiederle un’opinione, oppure di commentare con lei un concerto, ha potuto riscontrare una dote sorprendente, rara – per quanto riguarda la mia esperienza sino ad oggi, posso senz’altro dire “unica” proprio nella combinazione di velocità e livello artistico con cui l’ho riscontrata in Sonja Pahor -: mi riferisco proprio alla sua capacità di identificare la qualità o il problema o comunque il margine di miglioramento di una esecuzione musicale in aspetti di ordine strutturale e formale, e di cogliere all’istante il punto critico o cruciale. Anche quando si trattava di brani che non aveva mai letto o ascoltato, anche se si trattava di brani complessi, Sonja Pahor istantaneamente, “a orecchio” o a “prima vista”, entrava subito nel merito della loro organizzazione di insieme, e da lì partiva per afferrarne o per farne meglio afferrare il senso profondo. Una delle sue frasi preferite era: “bisogna curare la nota”, e non era mai cura del dettaglio in sé, ma comprensione dell’insieme attraverso l’identificazione selettiva e immediata del dettaglio più importante. Se è vero che il tutto è diverso dalla somma delle parti, allora si può dire che il senso del tutto e il modo più efficace di esprimerlo sembravano rivelarsi a Sonja Pahor per divinazione. E certo, ascoltando le sue registrazioni, questo è molto evidente: l’espressione fa tutt’uno con la lucidità dell’organizzazione, con l’eloquenza e la distinzione degli elementi, delle cellule, delle frasi, del profilo dei disegni, dell’armonia. Nella pianista Sonja Pahor struttura ed espressione sono come le facce della stessa medaglia.
Questo suo modo di essere musicista e insegnante di alto livello ci dice qualcosa anche sul perché Sonja Pahor lascia un grande patrimonio di affetti, sul perché tante persone che l’hanno conosciuta abbiano provato un così intenso dolore quando lunedì è arrivata la notizia del tutto inaspettata. Per quanto mi riguarda, penso un po’ di aver capito meglio chi era Sonja Pahor come persona soprattutto dal modo come commentava e contribuiva a migliorare le mie esecuzioni. “Questo lo fai bene, mi piace come lo suoni”, diceva, e mi spiegava a volte anche i motivi per cui effettivamente trovava che ci fosse del buono; poi aggiungeva: “però”… E lì cominciava la parte più interessante, era come se si aprisse un sipario e si entrasse in un’altra dimensione, dove il talento e la competenza di Sonja Pahor mi elargivano generosamente la possibilità di condividere l’orizzonte della sua immensa cultura musicale e delle sue capacità di interprete, quasi sempre a partire dalla intelligenza della forma come chiave per intendere ed esprimere il senso della musica. Lei era proprio così: questa modalità di critica in due tempi non era un artificio retorico di comunicazione didattica, un modo morbido e gentile di correggere e migliorare un’esecuzione a partire da una frase di circostanza. Era anche il suo modo di stare al mondo. Nei rapporti umani Sonja Pahor aveva la capacità di ascoltare e di comprendere, di comprendere anche senza parole, aveva la disponibilità a capire e a cogliere quello che c’è di buono nelle persone; fino al limite della tolleranza estrema rispetto alle situazioni difficili e alla sofferenza che la vita a volte le ha consegnato. È stata così fino alla fine. Bastava che si potesse cogliere qualcosa di buono, qualcosa di bello, qualcosa di sincero, e spontaneamente lei era veramente capace di apprezzarlo, di volere bene alle persone, di essere grata per il poco o molto che la vita le offriva. Questo non significava affatto accettare il mondo per com’è, come non significava fermarsi alla superficie di una buona esecuzione rinunciando al tentativo di andare oltre. Nella musica ma anche nella vita lei sapeva subito da che lato provare a migliorare le cose, da che lato andare più in profondità per interpretare meglio il senso di una vita ben vissuta e di un’arte ben praticata. Sotto la serenità di Sonja Pahor c’era la stessa, positiva ansia ed energia di miglioramento e di ricerca che di solito appartiene ad anime più inquiete, più agitate; lei condivideva la parte positiva degli artisti, senza averne la gran parte dei difetti.
Il mondo è fatto di bene e di male, questo lo sappiamo tutti, ma solo creature particolarmente gentili e illuminate hanno il dono di accettare questa realtà con la serenità di uno sguardo così limpido, fermo e profondo; uno sguardo sereno soprattutto perché volto alle cose belle, a cogliere il bene, a praticare il bene. Pensando a com’era Sonja Pahor, viene dunque spontaneo provare gratitudine per i doni più belli che riceviamo – la vita stessa, gli affetti più cari, l’amicizia, il privilegio di poter vivere a contatto con l’arte –. E sorge altrettanto naturale l’esigenza di dare segno tangibile di questa gratitudine in un modo non passivo; piuttosto, coltivando i doni che abbiamo ricevuto, attivandoci per migliorare al massimo delle nostre possibilità noi stessi e gli altri. Sonja Pahor ci lascia l’esempio di una vera e propria disciplina dell’accettazione del mondo e della tensione verso il bene. Riuscire a realizzare almeno in parte una dialettica e una disciplina di questo tipo ci aiuterà a dare un senso più positivo alla nostra vita.
Santi Calabrò